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SIC Book Review Edizione 2025 – Marzo – Il re invisibile – A cura di Gilberto Specchiarello

Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip,  di Cesare Alemanni

Recensione a cura di Gilberto Specchiarello

Ho scelto di recensire il libro Il re invisibile di Cesare Alemanni per due motivi: da una parte, la curiosità di capire perché il microchip venga soprannominato un re invisibile; dall’altra, perché mi ha riportato alla mente i tempi del mio passato da studente all’istituto industriale, quando durante le lezioni di elettronica, nei lontani anni ’80, si parlava di transistor, MOSFET e altri componenti allora innovativi.

Il libro ripercorre la storia tecnologica del microchip e le principali tappe della sua evoluzione.

Come suggerisce il sottotitolo, però, non si limita a questo: esplora anche le dinamiche economiche e il potere geopolitico che il microchip ha acquisito nel tempo, aiutandoci a comprendere perché alcune realtà industriali siano emerse mentre altre sono scomparse.

Ma andiamo con ordine.

Un po’ di storia

Non si può parlare di microchip senza partire da ciò che sta alla base del calcolo computazionale: l’algebra booleana. George Boole, figlio di un calzolaio inglese, era un ragazzo autodidatta appassionato di matematica. La sua ossessione fu trovare un ponte tra le relazioni logiche e l’algebra. Ebbe l’intuizione di limitare il campo dei numeri ai soli 0 e 1, gli unici che soddisfano l’equazione x * x = x. Nel 1854 pubblicò An Investigation into the Laws of Thought, ma la sua teoria, per quanto elegante, non trovò subito applicazioni pratiche.

Solo decenni dopo, con i primi tentativi di automazione, si cominciò a intravederne un impiego. Charles Babbage teorizzò una macchina calcolatrice, ma gli unici mezzi tecnologici dell’epoca erano i relè. Pur avendo ricevuto fondi per realizzare una macchina differenziale capace di tabulare funzioni polinomiali, il progetto non fu mai completato.

I relè, interruttori elettromeccanici, trovarono una prima applicazione concreta con il telegrafo di Samuel Morse nel 1837. Furono successivamente impiegati nel sistema telefonico americano e la loro diffusione portò alla produzione su larga scala. In questo contesto, nel 1904, John Ambrose Fleming – consulente della Marconi Company – realizzò la prima valvola termoionica, un dispositivo in grado di rettificare la corrente, che con il tempo sostituì progressivamente i relè nei sistemi di telecomunicazione.

Il passaggio dall’impiego delle valvole termoioniche per la trasmissione dei segnali al loro utilizzo nel calcolo vero e proprio – inteso come esecuzione rapida di operazioni matematiche – fu accelerato con l’arrivo delle guerre mondiali. Fu Claude Shannon, giovane studente al MIT, a notare la corrispondenza tra l’algebra booleana e il funzionamento dei relè. Nel 1937 pubblicò la tesi A Symbolic Analysis of Relay and Switching Circuits, gettando le basi teoriche dell’informatica: ovvero la possibilità di mappare operazioni logiche su dispositivi fisici in modo diretto.

Sebbene l’intuizione di Shannon fosse rivoluzionaria, rimaneva un altro annoso problema tecnico: costruire macchine affidabili, meno complesse e più gestibili. Le macchine dell’epoca richiedevano cablaggi intricati o combinazioni di ingranaggi, e programmarle significava modificare fisicamente i collegamenti – un’operazione lenta, delicata e poco flessibile.

Nel contesto storico tra le due guerre, i Bell Labs si affermarono come una vera fucina di innovazione, anche grazie all’arrivo negli Stati Uniti di numerosi scienziati europei in fuga dalle persecuzioni naziste. Tra questi vi era John von Neumann, che contribuì a definire l’architettura dei primi computer digitali programmabili: macchine capaci di eseguire operazioni diverse ricevendo istruzioni da una memoria interna. Fu von Neumann a proporre anche l’utilizzo dell’ENIAC per eseguire i complessi calcoli necessari a valutare la fattibilità della bomba all’idrogeno.

L’ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer) è considerato il primo vero computer elettronico digitale general-purpose della storia. Occupava una sala di 9 metri per 15, pesava 30 tonnellate e conteneva 17.468 tubi a vuoto, 70.000 resistenze e 10.000 condensatori. I suoi limiti erano soprattutto fisici: i tubi a vuoto erano ingombranti, fragili e soggetti a frequenti guasti. Questo spinse la ricerca verso la creazione di componenti più piccoli, più affidabili e più economici.

Era il 1958 quando il vicepresidente dei Bell Labs utilizzò per la prima volta l’espressione tyranny of numbers, ed essa suonò come una vera e propria chiamata alle armi per il mondo scientifico e tecnologico americano. A raccogliere la sfida fu un giovane ingegnere trentacinquenne della Texas Instruments, Jack Kilby, che ebbe un’intuizione semplice ma rivoluzionaria: perché non provare a montare un circuito completo – composto da più transistor interconnessi – direttamente su un singolo pezzo di semiconduttore?

Il 12 settembre 1958, Kilby mise in funzione una scheggia rettangolare di germanio contenente un transistor, un condensatore e tre resistori, tutti collegati con fili d’oro: nacque così il primo circuito integrato.

Pochi mesi dopo questa dimostrazione, a San José, in California, un team di ricerca della Fairchild Semiconductor perfezionò il concetto, scoprendo che era possibile costruire chip i cui componenti fossero direttamente incisi all’interno di una base di materiale semiconduttore. Il cosiddetto processo planare consentiva di creare minuscoli “canyon” nel materiale, all’interno dei quali inserire i transistor necessari, eliminando così la necessità di fili per interconnetterli.

Forse ho tralasciato di menzionare ciò che fu la spinta emotiva e politica alla base di questa accelerazione tecnologica: lo Sputnik Moment, ovvero il punto di svolta nella Guerra Fredda, quando l’Unione Sovietica lanciò in orbita il primo satellite artificiale. Gli Stati Uniti percepirono questa impresa come una minaccia concreta alla loro supremazia e sicurezza, tanto da rispondere istituendo, nel 1958, il National Aeronautics and Space Act, da cui nacque la NASA.

I requisiti richiesti ai computer per supportare i calcoli necessari a portare l’uomo sulla Luna crebbero rapidamente. Quando la NASA chiese a Jay Lathrop di realizzare un minuscolo sensore, lui si ingegnò per trovare un modo di produrre circuiti ancora più piccoli ed efficienti: fu così che introdusse l’uso della tecnica della fotolitografia, oggi alla base della produzione dei microchip.

Con l’aumento della complessità dei processi di calcolo, iniziarono a emergere nuovi problemi, tra cui il surriscaldamento eccessivo dei chip. Una soluzione efficace fu trovata nel passaggio all’uso del silicio, che offriva migliori prestazioni rispetto al germanio, fino ad allora il materiale più utilizzato.

Le innovazioni cominciarono a susseguirsi rapidamente, e si passò dall’idea del circuito come semplice interruttore elettronico per eseguire calcoli all’idea di un chip programmabile, capace di elaborare input secondo un programma di istruzioni memorizzate al suo interno. Un concetto molto simile a quello immaginato da von Neumann, che aveva assegnato tale funzione alla cosiddetta unità di elaborazione centrale.

È in questo contesto che, tra il 1975 e il 1976, assistiamo alla nascita di due aziende destinate a cambiare la storia dell’informatica: Microsoft e Apple.

L’evoluzione del chip consiste soprattutto nella sua miniaturizzazione e nell’aumento della densità dei componenti all’interno di ciascun circuito. Oggi esistono oltre trenta tipologie di chip, ognuna ottimizzata per una funzione specifica all’interno di un sistema microelettronico.

Lo stato attuale

Da circa trent’anni, un tipico chip può essere progettato da un’azienda con sede nel Delaware o in Israele, utilizzando un modello base di progettazione britannico, sviluppato con software programmati nella Silicon Valley. Una volta conclusa la fase di design, il progetto può essere inviato per la produzione a un impianto in Taiwan, che a sua volta utilizza wafer di silicio ultrapuro estratti negli Stati Uniti, trattati chimicamente in Giappone e tagliati in Corea del Sud.

Il design del chip viene poi stampato utilizzando strumenti avanzati prodotti da un’azienda dei Paesi Bassi (ASML). Dopo la produzione, il chip viene testato in un paese del Sud-est asiatico, per poi essere inviato in Cina per l’assemblaggio finale all’interno del dispositivo elettronico che lo ospiterà.

La fase di design è da sempre la più impegnativa dal punto di vista intellettuale, quella in cui si concentra il maggiore investimento in ricerca e sviluppo.

Alla fine degli anni ’80 si notò che il ritmo di evoluzione dei chip era così rapido da rendere insostenibile per molte aziende tenere il passo: il ciclo completo, dalla progettazione alla fabbricazione, implicava la necessità di sostituire costantemente le attrezzature, spesso già obsolete dopo pochi anni. Il costo di ammortamento delle fabbriche era troppo alto per le aziende più piccole, che finirono per uscire dal mercato.

Fu così che, per liberare capitali e aumentare la flessibilità, l’industria americana dei chip, e poi quella globale, si divise in tre grandi categorie di aziende:

  • IDM (Integrated Device Manufacturer), che gestiscono internamente sia il design sia la produzione. Ne fanno parte colossi come Intel o la sudcoreana Samsung.
  • Foundry (in italiano fonderie), aziende specializzate esclusivamente nella produzione conto terzi di chip progettati da altri.
  • Fabless, ovvero aziende che si occupano solo della progettazione e innovazione dei semiconduttori, senza avere stabilimenti produttivi propri.

L’azienda più importante di cui probabilmente non avete mai sentito parlare – a meno che non siate del settore – è ASML. Dal 2017 è l’unica al mondo a produrre le macchine necessarie per stampare chip con nodi inferiori ai 7 nanometri.

Ma cos’è un “nodo”? Nel linguaggio dei semiconduttori, il nodo (node) è un’unità di misura che rappresenta la distanza tra i componenti fondamentali all’interno di un chip, in particolare tra i transistor. Più il nodo è piccolo, maggiore è il numero di transistor che si possono inserire nello stesso spazio, rendendo i chip più potenti, più efficienti e meno energivori.

Il traguardo raggiunto da ASML è il frutto di un investimento colossale: oltre 10 miliardi di dollari distribuiti su vent’anni di ricerca, spesso senza garanzie di successo. Dopo una lunga serie di tentativi e fallimenti, si è arrivati allo sviluppo della litografia EUV (Extreme Ultra-violet), una tecnologia che utilizza radiazioni ultraviolette estreme per incidere circuiti su scala nanometrica con una precisione mai vista prima.

Tornando invece al mondo delle foundry, è probabile che molti abbiano già sentito parlare della TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), la più importante fonderia di chip al mondo. Per capirne il peso: detiene il 92% della produzione globale dei chip ai nodi più avanzati. Inoltre, circa un terzo di tutti i semiconduttori presenti nei prodotti elettronici di tutto il mondo viene fabbricato nei suoi impianti.

Nel libro viene spiegato molto bene come unicità e specializzazione della TSMC si siano sviluppate. È a questo punto che il libro si apre ai capitoli più interessanti dal punto di vista geopolitico, più che strettamente legati al progresso tecnologico.

Oggi Cina e Stati Uniti sono le due potenze principali che hanno la necessità di avvalersi non solo di capitale umano – talento, formazione, esperienza, competenza – ma anche di capitale finanziario e politico, per anticipare la curva dell’innovazione, anziché inseguirla.

L’obiettivo è andare “beyond Moore”, ovvero oltre i limiti che la Legge di Moore ha storicamente tracciato.

Formulata da Gordon Moore nel 1965, la sua celebre legge empirica prevedeva che il numero di transistor integrabili in un chip raddoppiasse circa ogni due anni, con effetti diretti sull’aumento della potenza di calcolo, sulla miniaturizzazione dei componenti e sulla riduzione dei costi per transistor.

Per decenni, questa “profezia che si autoavvera” ha guidato l’evoluzione dell’industria microelettronica.

Tuttavia, il 22 settembre 2022, Jensen Huang, CEO di NVIDIA, ha dichiarato pubblicamente: “La Legge di Moore è morta”, sottolineando che i costi di produzione dei wafer da 12 pollici sono ormai troppo elevati per sostenere ulteriori riduzioni di prezzo. Con questa affermazione, ha sancito un cambio di paradigma: non è più la miniaturizzazione a trainare l’innovazione, bensì la capacità di soddisfare nuove esigenze computazionali, anche a costo di aumentare i prezzi.

Secondo i fautori della visione “beyond Moore”, per andare davvero oltre, bisogna cambiare radicalmente paradigma: ripensare i sistemi e i processi computazionali alla base dell’informatica, forse persino abbandonando l’idea stessa del chip così come lo conosciamo oggi!

Conclusione

Il re invisibile è un libro piacevole da leggere, scritto in modo semplice ma preciso, e arricchito da una sezione di note finali che permette di approfondire i temi trattati o risalire direttamente alle fonti. Una vera full immersion: prima nella dimensione storica e tecnica, poi in quella geopolitica e infine in uno sguardo proiettato verso il futuro dell’umanità.

Dopo averlo letto, posso affermare con convinzione che sì, il microchip è davvero un re invisibile: così pervasivo nella nostra quotidianità da diventare quasi impercettibile, pur restando un elemento da cui dipendiamo completamente.

G. Specchiarello

Gilberto Specchiarello (PMP®), laureato in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio nel 2002, dal 2007 lavora nel campo della manutenzione di impianti industriali. Ha iniziato a collaborare con il PMI-SIC nel novembre del 2018 e da febbraio 2022 supporta le attività del Chapter nel ruolo di Direttore Comunicazione. 

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