Funzionare o esistere?, di Miguel Benasayag
Recensione a cura di Angelo Elia
Il dilemma legato alle implicazioni etiche e sociali che derivano dall’utilizzo spinto della tecnologia e dalla conseguente evoluzione della società è un tema di cui si parla molto in questi anni. La “tecnologia pervasiva”, che ci permette di accedere velocemente a miriadi di informazioni e ci chiede di essere costantemente connessi e performanti, è un’opportunità o una minaccia? Sta migliorando la nostra vita oppure sta riducendo i nostri spazi? Personalmente credo che i vantaggi di vivere in un mondo sempre più tecnologico superino ampiamente gli svantaggi. Tuttavia, ritengo che da tale dilemma sia opportuno trarre degli spunti di riflessione e ciò mi ha spinto a leggere “Funzionare o esistere?” di Miguel Benasayag.
Il tema affrontato è l’impatto che l’ideologia dell’informazione (attuale ideologia dominante, secondo l’autore), la tendenza a modellizzare il mondo attraverso il digitale e la crescente ibridazione tra vivente e artefatto stanno avendo sulla nostra vita. Il libro parte dalla definizione di esistenza e funzionamento, due dimensioni intrinsecamente connesse. La dimensione dell’esistenza è riferita prevalentemente alla conoscenza, all’esplorazione e alla cultura. La dimensione del funzionamento è riferita prevalentemente all’omologazione dei comportamenti e alla ricerca delle performance.
I processi che riguardano l’esistenza sono qualitativamente diversi dai processi che riguardano il funzionamento, ma entrambi sono fondamentali nel contesto di un’unità inscindibile. Secondo l’autore, dalla sua visuale di filosofo e cioè di chi riflette sul senso dell’esistenza umana, il problema della nostra epoca è che stiamo separando in modo artificiale le due dimensioni. In particolare, stiamo facendo prevalere i processi del funzionamento limitando (o addirittura negando) i processi dell’esistenza.
Dopo questa introduzione, il libro entra nel merito delle dinamiche che ci impongono di “funzionare”. Siamo chiamati a diventare imprenditori della nostra vita, tutto è riconducibile alle nostre azioni e se qualcosa va male… dipende da noi. Condizioni quali tristezza, debolezza e malattia sono difetti di funzionamento da sistemare. Ai giovani non è permesso di essere indecisi sul proprio orientamento personale e prendere tempo, ai vecchi non è riconosciuto il valore della saggezza e dell’esperienza frutto del divenire della vita. Viviamo un impoverimento relazionale che riflette, prima di tutto, la difficoltà di relazionarci con noi stessi.
L’autore si chiede cosa sia accaduto per arrivare a tutto ciò e individua, come fattore scatenante, il cambiamento delle nostre aspettative di futuro: dal Rinascimento al XX secolo l’uomo ha sempre creduto in un avvenire roseo e le azioni sono state condizionate e legittimate, in buona parte, dalla prospettiva di costruire un mondo migliore. Il fallimento di tutte le utopie legate alla società, al sapere e alla conoscenza ha rotto questo meccanismo e l’uomo è arrivato ad affidare alle macchine il compito di costruire un futuro più vivibile. Si sono affermate le cosiddette tecnologie convergenti, identificate dall’acronimo NBIC (Nanotechnology, Biotechnology, Information technology, Cognitive science), che ci hanno proiettato in una dimensione di immediatezza permanente all’interno di un mondo dove tutto è possibile e non ci sono limiti, dove persino la morte diventa una costrizione che si dovrebbe poter superare. Inoltre, tale ideologia ipermoderna ha favorito lo sviluppo del suo opposto, costituito dalle tendenze identitarie che hanno portato all’affermazione di integralismi di ogni tipo.
Tutto è perduto? Assolutamente no. L’autore si domanda come affrontare la complessità del mondo attuale e inizia a porsi dalla visuale dello psicanalista, cioè di chi può guidarci nell’esplorazione di noi stessi per attuare un cambiamento (nella misura in cui cambiare è ciò che vogliamo). Ci guida in un percorso che richiama i tre livelli di conoscenza di Spinoza (filosofo olandese vissuto nel 1600). La conoscenza di primo genere riguarda ciò da cui siamo affetti passivamente, senza conoscere nulla di esso e del perché ne siamo affetti. La conoscenza di secondo genere permette di individuare i collegamenti tra cause ed eventi, implicando l’accettazione delle situazioni e quindi uscendo dalla convinzione che tutto sia possibile senza limiti. La conoscenza di terzo genere si ottiene quando si fa un passo in più e si riesce a distanziarsi da sé, a non rimanere intrappolati in ciò che accade, a diventare realmente consapevoli dell’insieme che ci circonda.
Solo quando raggiungiamo la conoscenza di terzo genere possiamo riuscire a liberarci dall’immediatezza permanente, possiamo superare il mito secondo cui si può sempre fare di più e in meno tempo (ma senza sapere realmente cosa si sta facendo), possiamo realizzare che fragilità e debolezze fanno parte della vita. Di conseguenza, possiamo sviluppare la nostra potenza di agire e comprendere. L’ultima parte del libro propone approcci, esperienze e metafore per andare in questa direzione, anche attraverso esempi del percorso personale dell’autore (in particolare, richiamando episodi legati al suo attivismo politico in Argentina negli anni della dittatura militare).
Il libro certamente costituisce una critica alla società attuale e mette in guardia dal rischio di ridurre le persone al rango di elementi di un ingranaggio: ci sentiamo forti di abitudini e convinzioni predefinite, tendiamo a vivere il fallimento come un’anomalia da risolvere e non come un’opportunità per migliorarci, da qui la sempre più netta divisione tra winners e losers.
Ma l’autore non si ferma alla critica. Le atmosfere cupe e da fantascienza della prima parte del libro lasciano spazio, nella seconda parte, a messaggi di fiducia e a diversi spunti propositivi affinché ognuno possa individuare un percorso per guidare la propria vita e non farsi travolgere passivamente da eventi e situazioni.
In conclusione, evidenzio una frase del libro che trovo particolarmente significativa: “Per affrontare la sfida della nostra epoca occorre agire e pensare nella complessità”. Essa richiama un concetto la cui applicazione richiede molto impegno: funzionare è facile perché tutto si può prevedere riducendo al minimo gli imprevisti, mentre esistere è faticoso perché comporta la capacità di adattamento a situazioni diverse che possono richiedere di mettersi in discussione e reinventarsi.
Buona lettura!
Angelo Elia, laureato in Economia e Commercio, è attualmente Program Manager in Engineering Ingegneria Informatica, dopo aver lavorato per altre primarie aziende del settore IT quali Cedacri e Sistemi Informativi (gruppo IBM Italia). Ha gestito programmi e progetti di diversa complessità per la realizzazione, l’avviamento e l’integrazione di sistemi informativi. È stato autore di articoli e post pubblicati su International Journal of Managing Projects in Business, LSE Business Review e Project Management Journal. È in possesso, tra le altre, delle certificazioni PMP, PMI-ACP, Project Manager Norma UNI 11648:2016, ICT Project Manager Norma UNI 11506:2013.