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SIC Book Review – Ottobre 2021 – Humanocracy, by Gary Hamel e Michele Zanini – Recensione a cura di Enrico Viceconte

COPERTINA

HumanocracyIl tema dei danni della burocrazia organizzativa, al centro del libro, è molto di attualità per la comunità dei Project Manager che si trova in un passaggio epocale del proprio “way of working”. Cambiamento sancito dalla nuova edizione del Project Management Body of Knowledge Guide (PMBOK® Guide 7th Ed.). Una transizione ispirata dal “Manifesto” dell’agilità, per il quale il valore creato, l’outcome, prevale sui processi e per il quale, in definitiva, la burocrazia è dannosa al successo di un progetto. Una conclusione a cui giunge anche il libro di Hamel e Zanini. La burocrazia come patologia e non come fisiologia delle imprese. Con una prospettiva di riscatto nell’”umanocrazia” in cui individui e interazioni contano più di processi e strumenti, per dirla in modo “agile”.

La tesi del libro è che la burocrazia in un’impresa sia un freno all’innovazione, alla competitività e allo sviluppo professionale. E fin qui niente di nuovo; lo dicevano anche gli scrittori russi ai tempi dello Zar. Il libro parte da una ricerca dei due autori fatta con Harvard Business Review. Ai lettori della rivista è stato chiesto di valutare l’entità della “bureausclerosis” all’interno della loro organizzazione, utilizzando un indice di massa burocratica “Bureaucracy Mass Index” o “BMI”. Il riferimento alla massa di grasso eccedente della medicina preventiva ci porta subito all’idea che il tema sia stato anche centrale in 30 anni di “lean thinking”.

Dalle 7.000 risposte ricevute è emerso che:

  1. La piaga della burocrazia sembra inevitabile
  2. A dispetto dei proclami, la burocrazia cresce, non diminuisce
  3. Nonostante anni di “delayering”, le organizzazioni non stanno diventando più piatte
  4. La burocrazia non funziona
  5. La burocrazia è nemica della velocità
  6. La burocrazia produce isole organizzative e non processi fluidi
  7. La burocrazia rende vano il tentativo di distribuire il potere in tutta l’organizzazione
  8. La burocrazia frustra l’innovazione
  9. La burocrazia alimenta l’inerzia

Insomma, come dicono gli autori a pag. 41, “La burocrazia è come la pornografia: è difficile trovare qualcuno che la difenda, ma in giro ce n’è parecchia”. Se lo avessero chiesto a ciascuno di voi, avreste dato le stesse risposte dei lettori di Harvard Business Review. Ma soprattutto, da Project Manager di ultima generazione che hanno letto il PMBOK7, avreste potuto scrivere o sottoscrivere il capitolo intitolato “I principi prima della pratica”.

Sin qui mi sono limitato a dare un’idea della tesi di fondo. Il libro è di oltre 300 pagine per cui la lettura offre molto di più della seguente tesi: la burosclerosi è una patologia e il rimedio è l’empowerment delle persone. Il libro offre delle articolate case history che mostrano i successi di imprese che hanno perseguito meno burocrazia e più umanocrazia e, nella quarta sezione del volume, un percorso verso l’umanocrazia. Un iter che, come si diceva, coincide abbastanza bene con il nuovo approccio al project management adottato dal Project Management Institute (PMI).

Nel libro, il percorso è diviso in step e potreste considerarlo come una roadmap buona anche per implementare nella vostra azienda i principi del PMBOK7 e cominciare a guardare con occhi nuovi i domini di performance.

Ma mi volevo soffermare sul metodo, fortemente basato sui casi d’impresa. Un approccio di ricerca manageriale basato sulla disamina di un numero (forzatamente limitato) di casi che, allo stesso tempo, fanno emergere e vanno a mettere alla prova una Grounded Theory, “un metodo di ricerca che nasce nell’ambito della ricerca sociologica ispirata al cosiddetto paradigma interpretativo, allo scopo di interpretare i processi sottesi da un determinato fenomeno; si colloca nell’ambito dei metodi di ricerca qualitativa. (…). Secondo la Grounded Theory, osservazione ed elaborazione teorica procedono di pari passo, in un’interazione continua. Il ricercatore scopre la teoria nel corso della ricerca empirica, e preferibilmente dovrebbe ignorare la preesistente letteratura sull’argomento, per non esserne condizionato. L’accento in questa tecnica viene quindi posto sui dati (si dice che “lascia parlare i dati”), piuttosto che sulle teorie, le quali derivano direttamente dall’analisi dei dati, che sono locali e contestuali. L’approccio dovrebbe quindi essere il più possibile libero da pre-strutturazioni teoriche”. (cit. Wikipedia).

Il libro è un esempio di presentazione di un lavoro di ricerca basato su questa metodologia delle scienze sociali. Il survey quantitativo delle settemila interviste di HBR non è altro che un fronzolo della ricerca.

Il volume presenta due casi d’impresa accuratamente analizzati: la Nucor Steel (USA, acciaio) e Haier (Cina, elettrodomestici). Le due imprese hanno adottato un approccio alle “operations” e alla gestione dell’innovazione in cui un forte empowerment delle persone ha consentito di ridurre la massa eccedente di burocrazia e migliorare le performance rispetto alle altre imprese del settore di appartenenza.

Nel libro sono citati, con minore dettaglio, altri casi d’impresa, mostrando una relazione tra modelli meno burocratici e performance.

Ma qui vorrei esporre la mia riflessione critica, che si basa anche sulla mia conoscenza piuttosto approfondita del settore siderurgico in cui opera la Nucor. Il caso Nucor è da circa 30 anni un esempio da portare a sostegno di alcuni studi di strategia e gestione dell’innovazione tecnologica e che qui si propone come modello organizzativo. Lo avevo studiato agli inizi degli anni ’90 quando, dalla siderurgia, sono passato alla formazione manageriale. Altri casi citati en passant nel libro, come Buurtzorg (Olanda, servizi alla persona), Morning Star (USA, conserve alimentari) sono altri esempi che, negli ultimi anni di innamoramento per l’umanocrazia, sono citati da un po’ tutti i sostenitori dell’impresa “senza capi” o con capi intermedi depotenziati e inoffensivi. L’avvertenza ai lettori è che, in questi casi, si applica il principio di induzione che il logico Bertrand Russell esemplificava con l’apologo del tacchino induttivista, laddove molti casi non provano una teoria.

In altre parole, il libro può suggerire una via a un modo diverso di lavorare ma non è in grado di dimostrare una correlazione tra burocrazia e insuccesso o tra umanocrazia e successo. Non sono infatti censiti e commentati casi di imprese burocratiche che hanno avuto successo e di imprese umanocratiche che hanno fallito.

Per non darvi l’idea che questa sia una stroncatura, e quindi per incoraggiarvi a leggere il libro e metterlo in relazione al nuovo modo di fare project management, vi dico perché stimo molto Hamel.

Nel 1990 uscì su Harvard Business Review, un suo articolo scritto con C.K. Prahalad, dal titolo: The Core Competence of the Corporation. Assieme ad alcuni scritti di Michael Porter, quello di Hamel e Prahalad, ha fatto parte, per oltre venti anni, del canone delle letture di base che suggerivo agli studenti di business management, anche quando le due aziende citate nell’articolo, la GTE (USA, telecomunicazioni) e la NEC (Giappone, computer) erano già l’una defunta nello spietato mercato USA (nel 2000) e l’altra, nonostante la protezione che il sistema-paese Giappone offre, ridimensionata e ridotta a un brand appiccicato a innumerevoli ma esigui rivoli di diversificazione, e altrettante divisionalizzazioni, incorporazioni, joint ventures, ridimensionamenti, cessazioni.

Una prima lezione nella lettura dei libri di management è che questi hanno una “scadenza”, come una busta di latte. Incalzata dal cambiamento dell’ambiente competitivo, la NEC, lodata da Hamel per la sua capacità di pensare a sé stessa e proporsi come un insieme coerente di competenze distintive invece che un insieme incoerente di aree di business (il difetto di GTE), si frazionava in aree di business e disperdeva competenze chiave. Entrambe le corporation furono spazzate via all’onda di distruzione creatrice degli anni ’90 e 2000. In Giappone il declino della NEC ha corrisposto all’uscita sostanziale del Paese dal settore della produzione dei computer.

Ma la qualità dell’articolo rendeva meno importante le considerazioni che possiamo fare oggi, ex post, sulla sorte delle imprese che erano prese a esempio, l’una in negativo (la GTE) e l’altra in positivo (la NEC). L’articolo resta fondamentale. La qualità era nell’ introdurre il concetto di competenze distintive (core competencies) senza il quale ogni ragionamento sulla formulazione della strategia d’impresa risulta vago. E ancora oggi, nonostante l’acqua scorsa sotto i ponti, mi sentirei di suggerirne la lettura e lo studio — come un fisico può prescrivere lo studio delle leggi di Newton anche se ci sono stati Einstein e la fisica quantistica. Piccola differenza, non vedo all’orizzonte degli Einstein della teoria d’impresa in grado di creare nuovi paradigmi.

Il pregio del libro non è dunque nel dimostrare una teoria (sostanzialmente indimostrabile) ma nel fornire esempi di aziende che sono riuscite a de-burocratizzare, fornendo il cosa, il come e il perché. La cosa può essere utile per passare dai principi condivisibili, condivisi ed enunciati con enfasi all’implementazione organizzativa e all’esecuzione nel contesto aziendale e di settore. È il modo in cui vi suggerisco di leggere ogni buon libro di management.

Enrico Viceconte

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